giovedì 24 maggio 2012

Non vi è dolore nelle schegge - (carte estratte: 16 19 21 - tiraggio di Mauro S.)



Manlio aveva la pelle così delicata che gli bastava un raggio di sole per essere ferito, cosa assai problematica per un boscaiolo, costretto a lavorar sol di notte per non rischiare di "sciogliersi al sole".
Albino, che era il figlio dell'uomo dei boschi, a dispetto del nome che portava, di problemi a stare all'aperto proprio non ne aveva; la sua unica preoccupazione era quella di pensare sempre, a cosa provasse un albero quando a colpi d'ascia veniva giù.
Nella testa di Albino, gli alberi si dimenavano sotto la scure del padre e poiché grazie al vento potevan comunicare più in fretta e lontano, non riusciva a far altro che pensare, che quelli tra loro si stavan gridando "vendetta!".
- Padre, ma quando voi calate la lama sul tronco, riuscite a sentire le grida dei rami? - disse Albino mordicchiandosi il labbro.
Manlio sorrise e per calmare il piccolo, quella sera non uscì puntuale al vespero, ma si mise a raccontare una storia.

Quanti sé può dir di aver avuto un albero? Che ad ogni passo mantiene il precedente, che ad ogni anno gira su se stesso, tenendo custodito il percorso dei pianeti e delle stelle.
In ogni vena del suo corpo è stipato un desiderio, che può render migliore il suo seme.
La scure sa legger tra quei pensieri e ad ogni colpo gli scava dentro, comprando con una semplice promessa quel suo anelito.
- Albero in cosa ti posso tramutare?
Domando ad ogni ligneo abitante del bosco, che ben contento di levarsi dal suolo si inchina di fronte alla mia lama.
- Non vi è dolore nelle schegge, puoi dormir tranquillo. - disse Manlio indicando ad Albino la chiave - Serra la porta come ogni sera, sarò di ritorno all'alba; molti questa notte cadranno, molti saranno trasformati.

Non so se ve l'ho già detto, ma Manlio quella sera non uscì puntuale al vespero... e si dimenticò la chiave.

La verità è una materia strana, che detta in altro modo fa dormire i cuori in pace; padri, madri, figli e figlie, nonni, nonne, amici ed amanti, tutti buoni come fossero loro stessi la scure che scava dentro comprando desideri.
Ma quali?

La notte era fredda e scura, e nonostante ci fosse un'argentea luna a rischiarare il cammino, le dita di Manlio assumevano un colore sempre più livido, colpo su colpo, e mentre era lì ad estirpar desideri, gli alberi si piegavano quel tanto che bastava per far da paralume a quella già poca luce.
Si alzò il vento, ma con orecchie umane Manlio non sentì gridare "vendetta!".
Cominciò a far davvero tanto freddo, e la luce della luna sembrava pian piano scomparire, tanto che al quinto albero caduto Manlio prese la strada del ritorno col fumo che gli usciva dalla bocca.
Girò per un bel po' prima di trovar la strada giusta, e arrivato alla porta cominciò a scavarsi nelle tasche, sperando di raggiungere la chiave al più presto. Probabilmente se l'avesse trovata, quel metallo gelido gli sarebbe sembrato più caldo delle sue dita che ormai facevano fin fatica a muoversi.
Niente! della chiave neanche l'ombra, ma per fortuna in casa c'era Albino, quel candido figliolo.
- Sono salvo!
Manlio cominciò a batter all'uscio, dapprima piano, poi via via sempre più forte, strepitando e chiamando, ma dal di dentro nessuno si levava ad aprirgli.
E come stupirsi di questo?
Albino dormiva tranquillo, sapendo il padre a far opera di bene nel bosco, a dispensare buone azioni ad alberi poco contenti di esser ciò che sono, bramosi di diventar sedie, tavoli e panche per far contento l'uomo.
Tump, dump, tump alla porta sentiva i colpi, che gli parevano quelli della scure, e Albino sognava che tutti gli alberi al padre gli facessero festa non gridando più male parole, ma anzi celebrando l'uomo con i loro stessi rami, facendolo saltare e volare in allegrezza, come a volte si fa con un amico ritrovato o con un figlio per farlo stare buono.
Vola Manlio, vola in alto, che tutti quanti ti voglion ringraziare.

Quando all'alba Albino si mise in piedi sul letto, i botti erano finiti e ruzzolò come un funambolo sino alla porta per vedere se riusciva a vedere da lontano tornare il padre.
Ah si! lo vide proprio bene, che dietro alla porta quello era diventato rigido come un tronco: ghiacciato e gelato a puntino in un sol blocco.
- Padre padre che ti è capitato?
Albino ci fece due giri intorno prima di spingiucchiarlo con il ditino: era freddo!
Manlio da dentro il blocco gli faceva segno con gli occhi speranzosi di guardare in alto: stava arrivando il sole.
- Per la miseria! maledetta pelle così delicata! - pensò Albino. - Non posso lasciare che il sole ferisca mio padre.
E così per evitar che quello si facesse davvero troppo male, poiché da blocco era piuttosto grande e rigido per farlo riparare, Albino si affidò alla saggezza di suo padre e presa in mano la scure si mise a farlo piccino.
Non vi è dolore nelle schegge, e a cubetti in casa ci poteva entrare.

sabato 12 maggio 2012

La canzone del viaggiatore - (carte estratte: 11 0 7 - tiraggio di Loredana C.)



Quando il viaggiatore giunse alle porte del paese, quello che da lontano gli era sembrato il campanile di una chiesa, si rivelò invece essere una donna che ingoiava spade.
Ella se ne stava lì ritta con la lama che le trafiggeva la gola, mentre elsa e guardia spuntavano appena fuor dalla bocca: come se fossero per l'appunto una croce.
In mezzo a qualche altro disgraziato accalcato lì per ammirare l'abilità della dama, il viaggiatore si fermò ad osservarla in quella posa per lui innaturale e quando la donna estrasse la spada, gli venne da chiedersi quanto in profondità poteva spingersi una lama senza ferire.
Egli che di cose nello stomaco ne aveva buttate giù parecchie, pensò fosse sciocco provare ad ingoiarne una senza prima masticarla.
Una volta per esempio, per troppa fame aveva mangiato una ruota abbandonata di carro, ma in principio l'aveva sbriciolata in pezzi piccoli; stessa cosa era valsa per le pietre incontrate qua e là, era solito mangiare quelle minute di fiume, che erano più facili da metter sotto i denti; aveva sgranocchiato qualche ramo; gustato la polvere della strada, per poi ritrovarsi a deviare dal suo cammino per trovare un rivo dove bere.
- Acqua…
Quel pensiero gli fece tornare alla mente tutta quella che aveva nelle vesciche dei piedi doloranti, che parevano otri gonfi pronti a debordare: consumate le scarpe ormai da giorni e camminando senza sosta, era così giunto alle porte di quella città.
- Vorrei provare anch'io a cacciarmi in gola quella spada, che è quasi l'ora del pranzo.
Disse il viaggiatore alla donna, che mentre riponeva nel fodero la spada tra gli applausi dei disgraziati, gli rispose senza neanche levare lo sguardo da quella.
- Se ti dessi la mia spada non me la renderesti, son sicura che sapresti solo cacciartela giù per la gola senza riportarla indietro.
Era vero! pensò il viaggiatore, che sino a quel momento non aveva fatto altro che provare ad immaginare quale potesse essere il gusto della lama, e come tutti coloro i quali vengono colti in fallo in mezzo ad altre persone, si sentì in dovere di dimostrarle il contrario.
- Non è vero! - Le disse di rimando senza esserne troppo convinto - il mio collo non è una via di sola andata… così come son bravo a mettere, so anche levare.
E si ficcò senza troppo pensarci una mano dritta giù per la gola, facendo tra quei canali una bizzarra scoperta: gli sembrò come fare un viaggio all'incontrario, dove la via che percorreva con le dita tese nel raggiungere lo stomaco, diventava un percorso inverso di memorie tattili.
Eh si! perché si ritrovò a toccar con i polpastrelli, tutta la polvere, le pietre di fiume, i rami sgranocchiati e i pezzi di ruota di carro che erano ancora lì; fino a che non raggiunse qualcosa che non si ricordava di aver mai ingoiato: due pezzi solidi e freddi, ricurvi ad U.
Tirarli fuori non fu del tutto facile come aveva millantato di saper fare, e  mentre il gruppo malconcio lo guardava con interesse, egli con sforzo enorme se li cacciò fuor dalla gola, producendo un suono molle.
Erano due ferri di cavallo, che adesso facevano bella mostra tutti sbavati nelle mani del viaggiatore, che con un certo orgoglio li mostrò alla mangiatrice di spade.
- Ben fatto! - Disse la donna. - Ora hai la tua spada.

Avere una spada può esser utile, magari mentre cammini vedi qualcosa di buono da mangiare che non riesci a raggiungere, e con quella ZAC! infilzi e te lo porti alla bocca; avere due ferri di cavallo lo è un po' meno, continuava a pensare il viaggiatore mentre ciondolava avanti e indietro per le vie del paese.
Non capendone un granché di cavalli e affini, e preso dalla rabbia li scagliò in un viottolo buio che scendeva a scalinata. Quelli sparendo alla sua vista cominciarono un allegro canto di ferro ballerino che va giù.
Al viaggiatore i piedi scalzi dolevano più che mai e mentre il dolore gli pulsava in testa, alle orecchie continuava a giungergli il suono dei ferri che cascavano di scalino in scalino, con tono sempre più grave e lontano.
- Al Diavolo anche loro! - Fece per andarsene… poi dopo un attimo. -D'accordo ci ripenso, a qualcosa mi saranno pur utili...
Così si ritrovò a scendere saltando due scalini per volta, perché gli era salita la paura di perdere quei ferri che rimbombavano cadendo.
Poi più nessun suono, e quando arrivò anch'egli in fondo, li riprese con sé. Si sentì come se avesse ritrovato un figliuolo smarrito, pieno di gioia si mise a ballar sul posto.
- Li ho ritrovati! li ho ritrovati! - Cantilenava allegro, ma il male ai piedi lo riportò alla sua condizione.
Ed ecco l'idea!
I ferri ricurvi potevano fargli da solidi calzari. Certo non si era mai visto nessun uomo ferrato con zoccoli da cavallo, ma a lui che importava: gli bastava poter mettere qualcosa tra il dolore e il pavimento.
Si allacciò così quelle scarpe di fortuna, con i lacci che solitamente teneva legati alla cintura.
A dir la verità i ferri erano proprio comodi, lo tenevano ben sollevato e protetto, e fatto qualche passo poté apprezzarne anche il piacevole fresco ai piedi.
Pronto così a risalir la scala fece il primo passo che pareva quello di un cavallo - clack! - poi un altro e un altro ancora, fino a che non ritornò sulla strada principale.
Quel suo allegro scalpiccio musicale, cominciò ad attirare l'interesse della gente, che fino a quel momento poca importanza aveva dato al viaggiatore scalzo, mentre ora qualche bimbo cominciò a ridere sentendo la melodia dei piedi, qualche donna si voltò a constatare il bel portamento che imponevano i ferri, e i cavalli non furono da meno al suo passaggio, facendo con il capo un certo inchino che solo tra cavalli ci si fa.

- Venite a sentire la canzone dell'uomo ferrato.
Gridava il viaggiatore girovagando ai margini della piazza, e cambiando ritmo nel suo passo, aggiungendo qualche salto e scivolata, cominciò a padroneggiar meglio quell'improbabile strumento; e se il metallo chiama altro metallo, ad ogni canzone corrispondeva il coro delle monete che finivano ai suo piedi.

Calò la notte e le strade si svuotarono, finché il viaggiatore non rimase solo con sè stesso.
Continuò a camminare per le vie, in cerca di un posto dove poter passare la notte, e ad ogni passo sentiva ancora la musica.
Ma questa volta era differente, perché non era una canzone per far moneta, ma una canzone solo per lui.

Non sono più in silenzio.

L'eco mi accompagna
e rimbalza sui mattoni,
prima di me.

Sono l'uomo che cammina sul metallo,
l'uomo che si fa sentire,
l'uomo che è sé.

Dove ho mangiato i ferri?
Dove ho camminato?
Dove ho messo i piedi?

Che sentivano il dolore,
senza farsi sentire.
Ora ho due voci,
perché ho la mia spada.

E se ne andò così cantando tutta la notte, rimuginando su quanto fosse strano sentire la propria stessa voce.
Non ci si abitua mai.
Provate a parlarvi da soli come se foste un altro, è facile e lo avrete già fatto tante volte, un po' sovrappensiero, un po' per gioco, o per sentirvi meno soli; alla fine, dopo qualche parola, c'è sempre un istante breve e prezioso, in cui si realizza che quello è proprio il timbro della vostra voce.
Ed è in quel momento che sentite un suono molle: avete afferrato la spada.