giovedì 22 settembre 2011

Le maledettissime sette frecce - (carte estratte: 6 3 4 - tiraggio di Leandro B.)



Che cosa c'è di più perfetto se non l'amore, che crea equilibrio speciale tra occhio e cuore.
La incocco lì così come rima facile con quasi sbaglio, manco fosse la settima freccia di cupido.
Si, perché quello che voi forse non sapete è che al dio per eccellenza del sentimento sacro, poco gliene cale di dove va a finire quella punta in eccesso. Che mica si diverte a tirare, egli se ne vuole solo sbarazzare per mantenere l'equilibrio del suo numero: sei.
E si sa che dopo aver ricevuto in dono sul sedere uno di quegli spilli, a noi del razionale più nulla importa.
Mentre il povero Cupido ne fa questione grave perché di frecce nella faretra se ne ritrova sempre sette, tanto che ogni volta ne esce pazzo volendone possedere solo sei.
Sei è un numero bello, un doppio 3 che si guarda in viso. Assorto appunto come due amanti che si completan per sguardo, dove occhio verso occhio crea profondissima coscienza.
- Maledette ancora sette! Che di quella freccia in eccesso me ne ero appena liberato.
Ma niente da fare, e più sulla terra sbucan amanti e più a quello gli viene la bocca storta per disappunto.
Scaglia e amanti, lancia e amanti, getta e amanti…
Incocca infine un'altra settima per levarsela di mezzo. Poi le riconta tutte quante, ma sono ancora sette!
- Sette, sempre sette e solo sette! Questo amore mi trafigge sol la bile!
Sta quello tutto il giorno a gridare, cercando nuove natiche maldestramente da centrare.
Ma forse il trucco per davvero è da scovare altrove, che se chiedi ad un innamorato "tre per tre?" lui non ti risponderà di certo "nove".

domenica 18 settembre 2011

I quattordici strati - (carte estratte: 13 3 4 - tiraggio di Gianluca C.)



Nessuno nasce orfano.
Vi è invece un istante preciso in cui lo si diventa, che fa da lama tra un prima e un dopo.
E se è vero che ogni condizione può esser sovvertita, Geremia aveva trovato allora la sua leva.
Potrei adesso aprire la danza con un "C'era una volta", per poi capitombolare su "un bambino di nome Geremia, che aveva le mani così piccole da non riuscire a tenere quei due sassolini incrostati di fango, trovati tra le pietre tombali il giorno del funerale dei suoi genitori".
Ma cadrei in errore, perchè fu solo molti anni più tardi, che egli cominciò a dimostrare quanto fosse abile a dare forma alla terra.
Il primo strato che tosto Geremia stese, fu il giorno del tredicesimo anniversario. Era crudo ma riusciva a dare un'idea generale della fisionomia: le teste, le gambe, le braccia, i seni per lei, un busto fiero per lui.
Non passò molto, che grazie al secondo strato, colmò con più personalità entrambe le figure. Quando il fango tendeva a sfaldarsi su alcune pieghe, le abili dita di Geremia sapevano arrangiare sempre una soluzione.
Il terzo strato, definì senza ombra di dubbio facendoli fiorire, che si trattava di una donna e di un uomo; e dai cinquanta centimetri si passò nel giro di un paio di mesi, ai sessanta del quarto strato, che li rese stabili.
Il quinto strato fu più difficoltoso perchè si presentò il problema di far essiccare compattando bene la superficie. Il sole poteva aiutare, ma muovere le statue all'esterno richiedeva fatica e ingegno: il peso di quella massa la rendeva una norma assai tortuosa.
Geremia doveva così legarsi un corposo baule sulla schiena e chino sotto quel carico, prima la donna e poi l'uomo, li portava fuori dalla bottega per lasciarli qualche ora all'aria vegliando su di essi.
La superficie ormai pareva solida e le fattezze erano sempre più affini a quelle di veri esseri umani: con ogni vena, pelo e imprecisione della pelle fatti di fango.
Con il sesto strato, Geremia vi si potè cominciare a specchiare: lo stesso suo naso aveva l'uomo, così come l'attaccatura dei capelli; ma il taglio degli occhi era come quello della signora.
Al settimo strato portò in ammirazione per l'intero paese la sua opera, cominciando a girare tutto il giorno con ben due bauli legati alla schiena, non sopportando l'idea di separare i compagni.
La gente li squadrava senza crederci, domandandosi se quelli fossero davvero fatti di solo fango. Persino i colori erano quelli del reale.
Geremia aveva imparato che di terre di diverse sfumature ne è pieno il mondo, e che tutti quei colori che davano vita quasi vera alle sue statue, per differente consistenza schiacciavano col peso quel buon figliuolo. La conseguenza fu che prese ad andare sempre più lento.
L'ottavo strato si pose oltre ogni significato di perfezione e dimensione. Ma dovette rinunciare all'idea di andare in processione, che anche a trascinarsi con le mani, le statue avevano accumulato così tante incarnazioni da inchiodarlo al suolo.
Al nono strato di fango straordinario, quei due colossi presero posto in pianta stabile fuori dalla bottega, perchè i soffitti non avevano dimostrato rispetto né tantomeno vergogna di esser così volgarmente bassi.
- E se voi non capite l'importanza della dimensione, io vi priverò del farvi sentire utili ed amorevoli nei miei confronti.
Da quel momento andò a vivere al di fuori.
Il decimo strato fu quello che gli spaccò di più il cuore, perchè non riusciva a darsi pace per non avere abbastanza da donare alla sua creazione.
Dormiva la notte ai piedi delle statue, e di giorno faceva centinaia di prove per trovare il modo di dar strato robusto alle sue convinzioni, ma fu con l'undicesimo spessore che risolse l'equazione.
Duri come il granito, non avrebbero più dovuto temere nulla, neanche il fulmine.
Il dodicesimo strato eliminò il superfluo, levigando i lineamenti, cercando di trovare una linea essenziale, che esprimesse con un solo gesto tutto ciò che per lui era indispensabile.
Al tredicesimo strato cominciò a piovere.
Nulla avrebbe potuto preoccupare ormai Geremia: l'opera era indissolubile.
Ma continuò a piovere.
Passando le mani sulla superficie, un sottile strato gli rimase sui polpastrelli.
Altri furono i giorni, ma non smise di piovere.
L'ansia gli diede problemi a deglutire. Poi appoggiò le mani per verificare la compattezza dei colossi, ma queste affondarono fino ai gomiti e per il peso dei due Geremia vi rimase incastrato.
Continuò a piovere ed egli ad affondare, come quando stai fermo sul bagnasciuga sabbioso del mare e pian piano ti assorbe sempre più dal di sotto.
Geremia gradualmente faceva sempre più fatica a respirare, perchè compresso ormai nelle statue ci era finito quasi del tutto dentro.
Arrivò in modo naturale che con un filo di voce, tirandosi indietro disse:
- Perdonatemi, ma ora vi devo lasciare.
Con estremo dolore fece un passo indietro, poi un'altro, lasciando al posto del suo corpo un vuoto al negativo nelle statue.
Era il quattordicesimo strato.
Poco dopo, per quella mancanza i colossi si piegarono su loro stessi, non essendo più.
Geremia non si accorse subito di tenere stretti quei due sassolini trovati al cimitero, su cui aveva cominciato a stendere il primo strato.
Le sue mani erano molto più grandi di allora. Si portò poi i sassi al naso e li odorò ad occhi chiusi, perchè si ricordò di aver letto non si sa dove, che sono solo alcune pietre a conservare ancora un odore umano.
E finalmente Geremia fu solo Geremia.

venerdì 9 settembre 2011

I tiri mancini del giovane sovrano - (carte estratte: 4 20 1 - tiraggio di Valeria M.)



Cosa fa di un anziano sovrano, un anziano sovrano?
Il fatto di essere stanco di essere anziano.
Che se fosse sovrano senza essere anziano, raccoglierebbe per se molto più godimento da una vita di comando senza impedimento.
E come tutti anch'egli sapeva che è destino comune che tocca al povero come al ricco, che prima o poi ti annoi sin tanto che morte ti coglie per vizio.
Fatto sta' che se sei sovrano però, ti accade almeno una qualche piccola intercessione: che la tua posizione più alta degli altri, ti permette di esser meglio ascoltato dalle cerchie esterne del regno celeste.
Grazie a questa circostanza, già che le parole devon fare meno strada, il nostro sovrano annoiato si ritrovò a chieder ad un angelo di passaggio, di poter riporre nell'armadio la sua vecchierellezza.
L'angelo che per natura non si tira mai indietro da estendere indulgenze al di là del suo cielo, accordò al nostro anche questa concessione.
- Quando il sole ti sarà dinnanzi rimarrai sovrano annoiato, per impegno e allegrezza del tuo popolo; ma al calar di esso potrai rallegrar te stesso come fu un tempo.
La grazia era bell'e fatta.
Ed il sovrano per tutto il giorno rimase così allegro in attesa della sera, che quello sarebbe già bastato a non farlo sembrare così vecchio.
Poi quando anche l'ultimo raggio del padre sole si ritirò oltre i torrioni del castello, tutte le rughe e gli acciacchi si sciolsero in un giovinetto.
Il sovrano ritornato allegro e senza rughe cominciò così a correre per tutte le stanze del castello, finché il fiato glielo permetteva, e a far di quelle capriole che nemmanco una scimmia se le sarebbe mai immaginate, facendo sollevare come fosse egli stesso una girandola, tutte le sottane delle cortigiane del regno.
Mangiò di gusto dalla dispensa ogni ben di Dio, sfidò ogni singolo cavaliere in armatura facendolo capitombolare con la sua spada nuova di zecca, e andò avanti in questo modo fino al mattino.
Tra le lenzuola soffici, il sole porse i suoi omaggi all'anziano sovrano, che come destatosi da un sogno, si chiese se ciò che vagamente ricordava fosse davvero sepolto al di sotto delle sue stesse rughe.
Poi per tutta la giornata ne ebbe riprova, ricevendo elogi ed abbracci da tutti i cuochi che si complimentarono con lui per l'appetito dimostrato in quella notte; da tutti i cavalieri che con onore erano finiti gambe all'aria, e da tutte le cortigiane che tali girandole non ne avevano mai viste in una vita intera.
L'anziano seppur non ricordasse bene cosa fosse successo, si colmò l'alma di gioia e impaziente aspettò la notte successiva.
Non è però da me annoiarvi con troppi dettagli, fino a farvi diventare vecchi, e per restar nel succo vi dico, che per molti mesi quel giovinetto ebbe di che divertirsi notte dopo notte, ma poi si sa che giovinezza e vecchierellezza insieme non possono andar d'accordo per troppo tempo.
Il giovane cominciò a trovar troppo noioso quel vecchio che gli impediva di prolungare il proprio divertimento oltre i cancelli del mattino, e cominciò così a far dei bei tiri gobbi al pover'uomo, ridendosela della grossa.
Per prima cosa gli nascose i vestiti, che per tutto il giorno successivo, il sovrano fu costretto a rattopparsi di lenzuola e per il freddo gli duolse ogni osso che aveva in corpo.
La notte seguente firmò tutte le leggi al contrario, e all'anziano re non bastarono tutte le erbe del regno per farsi passare il mal di testa.
Poi passò tutta la notte a nuotar sotto le stelle, nel lago oltre le mura del castello, così che furono i reumatismi a far da morsa il giorno successivo.
Infine si stropicciò per tutta la notte la faccia, che le rughe del giorno dopo parevano scavate del doppio.
E fu così che dopo mesi di tiri mancini, il sovrano si addormentò per l'ultima volta; perché è esclusiva sola, di chi ha avuto un giovane in sé, di poter vivere almeno un giorno da re.

sabato 3 settembre 2011

I litiganti di Pietrabella - (carte estratte: 14 15 6 - tiraggio di Simone V.)



Se lui diceva sinistra, lei diceva destra e dove l'uno contava solo i numeri dispari, l'altro prediligeva i pari.
Così non si poteva più andare avanti, perché anche se Pietrabella era solo un piccolo borgo edificato ai margini della valle, meritava di sicuro qualcosa di meglio che due padroni in costante disaccordo.
La signora del borgo era bella, pareva quasi un angelo. I suoi pensieri erano delicati e per ogni singolo abitante avrebbe fatto qualsiasi cosa: dal dare monete d'oro a piene mani, a evitar per tutti di aver la schiena a pezzi per il troppo lavoro nei campi.
Il signore del borgo, che era il di lei marito, pareva invece non aver cuore alcuno, e chiamarlo diavolaccio era uso comune per gli abitanti di Pietrabella.
Quegli di dar oro a piene mani o sollevar da fatica la gente, proprio non ne aveva concezione e se poteva calcare la mano per aver miglior raccolto, non si faceva di certo troppo scrupolo.
E nel palazzo principale del borgo era tutto il tempo battaglia, e senza tregua potevi sentire sia di giorno che di notte, la fracassano canzone dei cocci rotti che si rincorreva da una stanza all'altra.
L'intera economia del borgo ruotava attorno ai cocci rotti, che fuori dal palazzo si poteva scorgere la fila dei carri dei mercanti di ceramica, dipanarsi neanche fosse un serpente fin giù alla base della valle.
Tirarsi piatti in testa l'un l'altro era ormai l'unico punto in comune che avevano i due amanti.
Ma per fortuna che ogni forte contrasto può essere calmato con il suo contrario, e se la storia di quei due sinora si era fatta troppo amara, due gocce del miele più dolce di Pietrabella potevano diventare la soluzione.
Fu così che un fidato consigliere di entrambi, provò a mettere in atto ciò che la saggezza popolare mista al buon senso gli venne a suggerire.
Approfittando della breve pausa creata dall'avanzar tra un carro e l'altro, egli fece scivolare una goccia di miele sul fiore che la signora portava tra i capelli, e una goccia invece dritta sul naso del signore.
La canzone dei cocci rotti riprese di li a poco, ma il miele cominciò a fare il suo gioco, e un'ape per ciascuno si posò sul vischioso elemento.
Il signore per vedere bene l'ape che gli si era posata sul naso, incrociò a tal punto gli occhi tra di loro, da non veder più null'altro che l'insetto che zampettava sulla sua protuberanza.
E altrettanto fece la signora, che levati gli occhi al cielo per scrutare il fiore che le impreziosiva la fronte, distolse lo sguardo da quella marea di ceramiche.
- Ho un'ape che mi cammina addosso.
Disse lui.
- Anch'io e chissà per quanto tempo lì ci vorrà stazionare.
Replicò lei tutta assorta e concentrata.
I due così presi dall'insetto, non si riconobbero più e cominciarono a conversare di quando entrambi erano sposati; ma adesso che il rispettivo compagno era sparito, si sentivano davvero soli.
Il signore cominciò a fare una corte spietata alla bella signora, che sembrava così simile a lui perché condivideva quel problema lì dell'ape, e la signora tutta emozionata per le attenzioni di un così valoroso pretendente, di volta in volta cedeva un pò di più le sue difese.
Finì così che si sposarono, perché finalmente avevan trovato l'anima gemella e a Pietrabella tutti furon da quel momento contenti perché al palazzo, la canzone dei cocci rotti aveva finalmente trovato un degno epilogo.
Zan zan!